“Quando arrivi a vedere la balma, se ne hai, puoi correre.”
Alzo lo sguardo, vedo la balma, non ne ho, corro.
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Non che ci volesse una cima, a capire come sarebbe andata a finire: il mio padrone di casa, qui in Valle, ha per status di Whatsapp la frase in D+ we trust.
Nel dislivello positivo confidiamo.
Così, nel momento in cui mostro un po’ di interesse, il padrone di casa - da questo momento PdC - mi convince a partecipare ad un mezzo vertical, cioè alla metà di 1000 metri del D+ di cui sopra da percorrere in tutta-una-tirata. A convincermi, in ordine sparso, questi elementi: l’atmosfera, a Ollomont, è paesana e piacevole, ben lontana da quella delle gare più scenografiche e blasonate; costa poco, pochissimo; c’è il pacco gara; “ti divertirai sicuramente”; la corsa si conclude all’Alpe Berrio; alla fine, birra e polenta con il famigerato prosciutto di Bosses.
Così si va alla Poyà di Ollomont (terza edizione), mi iscrivo sul posto, e sono in scarpette sul pratone che fu dello skilift,
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All’Alpe Berrio si nascondevano i partigiani guidati da Ettore Castiglioni, valentissimo alpinista improvvisamente illuminato e convertito alla causa antifascista. All’Alpe arrivavano dalle città gli ebrei e i valenti uomini - non ultimo, l’Einaudi secondo Presidente della Repubblica - prima di traferirli, di nascosto e a dorso di mulo, attraverso la Fenêtre Durand, valico che dalla Valpelline scavalla in Svizzera.
Storia dal finale triste, quella di Castiglioni, raccontata con arte da M.A. Ferrari nel libro Il vuoto alle spalle, che ho adorato.
Vuoi non arrivarci correndo, all’Alpe, luogo mitologico?
All’iscrizione, prima di me, una mamma sta ritirando il pettorale per il figlio - dieci? dodici anni? La signora dell’iscrizione sfila da uno scatolone un barattolo da 450 grammi di Nutella. Io spero che quello sia il pacco gara, ma purtroppo lo è solo della Poyà di Ollomont Kids, e io mi becco invece uno scaldacollo giallo fluo.
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Il fatto è che nonostante, e specie ultimamente, io macini moltissimi D+ camminando, non ho con me l’arte della corsa, figuriamoci quella della corsa-in-montagna. Non ho il fiato né la gestione delle energie. Non ho nemmeno le phisique, né tantomeno l’abbigliamento.
Comunque alle 18 io sono in maglietta sul fondo di un vallone di Ollomont già in ombra, fa freddo e tira un certo vento, il gonfiabile a forma di mucca annuisce oscillando anche se nel suo stomaco rimbalzino non ci sono bambini a saltare, e quello a forma di arco-di-partenza tende un po’ ad accasciarsi. Come sottofondo acustico, c’è lo speaker che snocciola senza soluzione di continuità e senza cambiare tono MAI una serie di date, tempi, nomi di atleti, curiosità e storicità del mondo trailista e verticalista.
Il PdC mi impone di corricchiare per riscaldarci, cosa che, nell’entusiasmo e nella fiducia verso chi ha esperienza, faccio; épperò poi sempre il PdC incontra degli amici, e per fargli vedere lo svolgimento della prima parte del percorso ci fa correre tutti su per il pratone dello skilift, poi dentro al bosco, su per alcune rampette polverose e quasi fino alle rocce della cosiddetta parte difficile.
"Ma ce la fai fare tutta per mostrarcela?”, dice un’amica.
“No no dai, scendiamo.”
Mi sembra tutto facile, comunque, e assolutamente alla mia portata.
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Punzonatura, recinto sotto l’arco gonfiabile mezzo accasciato, lo speaker dice cinque minuti, poi due, poi uno, poi fa il conto alla rovescia dal dieci e partiamo, e due minuti dopo sono strozzato dal fiatone e non sono neanche alla fine del pratone che prima non mi sembrava così arduo.
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Invece lo spasso inizia quando arriviamo alle rocce della cosiddetta parte difficile, perché fondamentalmente mi incollo a G., un settantenne (so l’età perché è il compare di corsa del PdC) dal quale non mi staccherò fin quasi alla fine, e che fin quasi alla fine non mollerà un attimo.
Alle rocce io ho lo sguardo basso sui talloni delle scarpe di G., sul quasi strapiombo alla mia sinistra e sulle punte dei bastoncini da trekking che entrano ritmici nel mio campo visivo. Bastoncini che non uso pressoché mai perché in trekking poles I don’t trust so much, e intanto lo zigzag infernale e verticale finisce, si apre un prato e in fondo c’è la balma, e
se ne hai, corri,
io corro ma ho G davanti, poi lo stesso G. riesce a darmi qualche metro perché dall’alto della balma ho sentito un altro PdC - la vita del nomade digitale è costellata di padroni di casa; un altro PdC, dicevamo, che ci ha ospitati qualche mese fa proprio in Valpelline e che è nel servizio di assistenza del vertical, che mi riconosce e mi fa ehi guarda che non sei mica in Veneto, e a me viene da ridere e gli rispondo qualcosa tipo lo faccio solo per lo jambon de Bosses, ci stringiamo la mano al volo, passo oltre, intravedo una scultura di rame ossidato (credo) - riesco a leggerne la dedica “per Ettore Castiglioni” e quasi mi viene una lacrimuccia, poi mi ricordo della balma e raggiungo di nuovo i talloni e di G.
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Sto calcolando che, secondo le descrizioni fattemi dal PdC, dovrebbero mancare 200 metri scarsi di D+, quando finisco con un piede dentro ad un ruscello fangoso. Guardo oltre le spalle di G. e verso l’alto, e lì c’è il traguardo e l’Alpe Berrio, da lì proviene lontanissima la voce monotona e snocciolante nomi di atleti dello speaker - ma come, qui, 536 metri più in alto? - e mi dico che l’Alpe Berrio è forse la balma, così non appena sbuchiamo sulla carrareccia di servizio dell’alpeggio mi slancio oltre G., corro in salita per almeno una ventina di passi - di più non è possibile - e insomma arrivo.
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La temperatura è bassa ma io sono accaldato, al tavolone attorno al quale si affollano gli arrivati ci sono generi di primo conforto tipo spicchi di melone, fette di prosciutto, banane, frutta secca. Gli altri verticalisti piluccano cose e bevono bicchieri d’acqua, io invece infilo la mano nel sacchettone di frutta secca mista e sono subito un roditore con le guance piene d’un boccone da tremila calorie, ed è ora di scendere.
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A piedi, scendere.
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E poi già mentre sono in coda per birra e prosciutto alla brace viene fuori in un sito apposito la classifica con i tempi, ed è una bella sorpresa (34 minuti e 26” secondi). Mangiamo; poi il freddo si fa davvero ingestibile e tocca riparare nel baretto e lì è tutto un comprimersi di verticalisti esaltati, ed è tutto un
“C’è questa a Courmayeur!”
“Ma quando?”
“Questo sabato!”
“Ma-”
“Ti iscrivo io!”
“Ma non so se-”
“Ti ho iscritto! Domani ci organizziamo per le macchine!”
E il mercato delle gare di corsa in montagna prospera grazie alla compresenza di endorfine e cellulari.
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Mercato al quale ormai non sono immune nemmeno io, novizio della verticalità, dato che in una settimana il PdC mi ha corteggiato per una gara in Svizzera, poi per “una garetta serale divertente, sono 1340 metri di D+”, poi per un’altra scarpinata qualche valle più in là, e c’è però il problema che la maggior parte delle gare richiede il certificato medico agonistico, che io non ho, ma sempre il PdC è arrivato a darmi l’indirizzo di chi me lo può fare in tempo zero, cosicché io risulti armed and ready per qualsivoglia evento si presenti sul mio cammino.
“Metti che nelle montagne dove andate vedi una garetta che ti ispira: hai il certificato, la fai.”
Chi l’ha detto?
In D+ we trust
Bel pezzo! Hai voluto il certificato? E adesso vola alto.