Ciao, sono Davide.
Niente introduzione: andiamo al sodo, nel senso di sòdo - come un uovo: io, dentro un caldo impietoso, due weekend fa.
Trovi tutto quello che devi sapere su di me e su questa newsletter in basso, dopo il pezzo di oggi. E mi fa piacere se ti iscriverai o condividerai Incudine: trovi gli appositi pulsanti strada leggendo. Uno, per dire, è questo:
Grazie per essere qui, e buona lettura.
Le fiamme, ovunque
I primi cinquecento metri mi sembra di riprendermi, quasi quasi mi sento fresco e performante, uh guarda come corricchio bene, senti gli Arsis negli auricolari come mi sospingono leggero, leggiadri; trotto attraverso la massa di trail runner che dopo il collo di bottiglia della partenza inizia a sfilacciarsi quando l’asfalto si fa sterrato e prende a salire.
Di fianco a me una signora. Sarà sui sessantacinque, caschetto di capelli color paglia, non ha equipaggiamento tecnico di sorta - è vestita di cotone, non ha occhiali da sole, non ha bastoncini, zainetto, scorte d’acqua, niente - ma ha i proverbiali muso duro e bareta fracà e corre un po’ curva ma dannazione, se corre; quando la pendenza si fa ostile rallenta giusto un attimo ma appena possibile corre, corre - sguardo fisso di fronte a sé, cose da fare su pa’l mont, è probabilmente avvezza a fare lo stesso percorso allo stesso passo ma con la gerla piena di legne sulla schiena.
Mi ci accodo, ne seguo il passo.
Poi, dopo duecento metri di dislivello il dentro delle cosce mi si sdilinque in un impasto caldiccio, mi sale fiele nella gola, vibrano stellette ai lati del mio campo visivo.
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La settimana precedente questa competizione ero (eravamo, io e Silvia) su per le Dolomiti a raccontare territori, e c’era un caldo fotonico: non caldo per sé, non “i gradi”, bensì “il sole”: aggressivo, furente, dardi infuocati che bruciavano la pelle, che disidratavano. Cinque giorni a camminare così, e ho generato un colpo di calore.
Tradizionalmente, il colpo di calore fa così: si innesca, poi si si concede uno, due giorni di quiescenza, infine esplode con il calore arancione delle fornaci per cuocere i mattoni. Nel giorno della quiescenza - la sera precedente la gara e da sportivo coscienzioso - ho mangiato una pizza al fine di fare il carico di carboidrati; nella notte ho avuto insolitamente caldo, così nella baita fuori paese ho dormito con la finestra aperta, nudo, senza lenzuolo, con il frinire degli insetti e il respiro del bosco e molta umidità a gravitare sul letto - a stendersi come un sudario su di me e sui miei propositi agonistici.
La mattina: una strazza, o meglio una strazza con lo scagotto.
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Neanche a dirlo, del carb loading non ho ritenuto nulla. Mi alzo dal letto, mi presento al bagno tremante su gambe esauste - le riserve di glicogeno sulle quali contavo, insistenti - e con i brividi.
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Lungo la strada, al bar, invece del caffè doppio - da sunnominato bravo e coscienzioso sportivo avevo fatto la settimana precedente senza caffeina per poterne raccogliere ogni beneficio giusto per la gara (seguimi per altri consigli science-based di bio hacking); invece del caffè doppio e della doppia o tripla brioche, ho faticato a buttare giù un caffè e un cornetto (pure integrale).
Qui Silvia si è preoccupata. Toglietemi tutto, ma non il mio appetito; è il più brutto dei segni.
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La corsa che ho fatto si chiamava La Velenosa, nomen omen.
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Mentre parcheggiamo nei pressi del ritiro pettorali, i telefoni ci danno un allarme meteo per temperature elevate. Guardo sullo schermo l’icona con il sole arancione e mi resta il cerchiolino raggiante impresso nelle pupille, una bruciatura di sigaretta, un fosfene infinito.
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La Velenosa sale, deve accumulare mille metri di dislivello in 14 km di sviluppo; a fine gara gli esperti con gli orologi sportivi sentenzieranno che sarebbero stati in realtà mille-e-quarantesei metri).
Lungo la salita le cosce non mi reggono e devo aprire i bastoncini molto prima della mia normale soglia; ogni passo è da strizzare da qualche parte in fondo alle fibre muscolari. La nausea, le labbra, il cavo orale, la gola: è tutto secco. Respiro con la bocca, disordinato; mi brucia la fronte, la pelle.
Al primo ristoro bevo un bicchiere che credo d’acqua ma sono sali minerali, e mi sale lo sbocco. Provo uno spicchio d’arancia: peggio.
Riparto.
Raggiungo non so come il punto più alto della competizione; c’è un bordello di musica da discoteca, la speaker che motiva e spinge al microfono, applausi e urla, un campanaccio (o almeno credo di averlo visto); bicchiere d’acqua, bicchiere d’acqua, uno spicchio di anguria che mangio a metà, bicchiere d’acqua; il grande cronometro digitale sopra al passaggio obbligato segna un’ora e un quarto - mi pare - e mi dico che da qui è tutta discesa e ancora una volta la vita sarà più forte di qualunque ostacolo MA NON È UN CAZZO VERO (anche se io ancora non lo so).
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Intanto comunque si scende a perdifiato, ma io fiato da perdere e gambe non ne ho e sto - come direbbero gli argentini - sto al punto de caramelo; per i porteños è un modo per dire che sei al top, ma io invece tra un attimo proprio mi liqueferò viscoso, sì che potrà (almeno) seguire le linee di massima pendenza fino in paese, giù, dove dovrebbe essere stato predisposto il traguardo di questa idea di merda che ho avuto.
Ma così non è; uno perché non mi liquefo davvero - disdetta! - e due perché dopo la discesa a perdifiato c’è un’altra discesa ancora più rocambolesca, lungo la quale essere viscoso mi avrebbe sicuramente giovato; discesa che mi fa rallentare un po’ nel dubbio: ma io questa discesa la conosco!, conosco i tornantini strettissimi e sub verticali giù e su dai quali io scendevo e salivo - a inizio giornata e a fine giornata, per quattro anni, tre settimane di luglio l’anno - con la stazione totale, il treppiede e le mie carabattole da rilevatore archeologico; perché qui nel bosco la Ditta Archeologica seguiva uno scavo; e ora penso un po’ sconclusionatamente che non è giusta, Montagna, questa tortura adesso; posto che io i buchi non li facevo - li facevano gli archeologi - ma in ogni caso, lo si faceva per la scienza, era tutto a fin fin di bene!, e intanto che mi incasino tra ricordi e giustificazioni il percorso si infila in un posto eccezionale - è la forra del Bus del Buson (seguimi per altri sentieri lungo i quali soffrire, ma belli) - e a metà di questa architettura di strati e antichi meandri l’organizzazione ha piazzato non un punto ristoro ma dei violinisti, e la loro It’s a wonderful world strumentale fa a pugni con la drammaticamente ironica Closer to cold degli Arsis che ho nelle orecchie; poco dopo c’è un’altra salitina che provo-ma-non-riesco a fare con spunto, alla fine della quale c’è un fotografo - anch’esso posizionato qui dall’organizzazione, immagino - che inizia a scattare (nel senso delle foto, non dell’atleticismo); e io
Ti prego non ora, è il mio momento peggiore.
Lui: ma è qui che vengono le foto più belle-
Io: del tipo “volevamo ricordarti così?”
E fuggo via al rallentatore. E qui c’è la prima mazzata psicologica, uno srotolarsi al contrario - quindi in salita - di sentiero a tornanti con le persone su in alto che corrono, piccolissime, minuscole, lontanissimissime e non rallentate come me; e allora attacco la salita e il percorso sta cambiando orientamento e si è fatto gradualmente più umido, più caldo, più esposto al sole; e dai-e-dai sbuco sopra e poi giù ancora, passo per un punto ristoro - solo acqua per me - e vòlto un angolo e sotto di me c’è una scalinata di antichi gradini di pietra che a guardarla da qui sembra infinita, e io ancheggiando giù mi lascio sfuggire un bestemmione parossistico proprio nel momento in cui dalla siepe che delimita una casetta, più in alto, due ragazzine saltano su come a-molla e mi urlano bravo, BRAVO CONTINUA!
A correre o a bestemmiare?
Nel dubbio faccio entrambe le cose, bestemmio e mio fiondo malamente in discesa.
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Mentre sono raggiunto da una cassa in quattro quarti riverberata dalla calotta di faggi della valle, raggiungo a mia volta una signora - molte signore alla Velenosa - che mi dice che è una figata quando sente la musica, perché sa che si sta avvicinando il traguardo, e allora entrambi acceleriamo, ringalluzziti; ma appena svoltiamo sulla destra lei si rende conto di dove siamo e mi dice ah ma questo non è il traguardo, è solo [nome di una borgata che non ho capito], quindi ne mancano ancora cinque o sei vabbeh e inizia a trotterellare in avanti e in salita facendo nuvolette di polvere dai talloni mentre io perdo completamente il punto di caramelo psicologico e fisico e mi raddenso e rallento, invischiandomi nelle commessure tra le pietre, tra le radici degli alberi, in smoccolamenti e dannazione.
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Poi oh, alla fine ‘sti cinque o sei li faccio, più camminando e spuntando muco che non correndo e incarnando i sani principi dello sport. Tutto attorno piovono raggi di sole come le frecce infuocate che nelle miniature medievali dio fa cadere dal cielo dentro le mura di città fortificate abitate da uomini peccaminosi nel giorno dell’Apocalisse (seguimi - ti sarà facile, sono quasi fermo e questa frase senza virgole mi ha tolto il fiato - seguimi per altra storia dell’arte), e ogni cosa colpita (nel mondo reale della corsa, non nelle miniature medievali) sprigiona scintille, vira in arancione, poi fonde.
Due ragazzi si sostengono a vicenda per gli ultimi metri, vedo il campanile profilarsi dietro al colle, c’è davvero la musica, accelero, svolto l’angolo e la chiesa dei SS Pietro e Paolo di Bolzano di Belluno ha una scalinata di trenta, quaranta gradini e ci sarebbe un che di è Philadelphia e io sono Rocky ma lasciamo perdere come ci arrivo, su; supero il traguardo, faccio alcuni respiri le cui espirazioni sono fuoco puro, prendo diversi bicchieri d’acqua (uno nella barba, uno dentro la maglietta, un terzo riesco infine a berlo) e una manciata di mandorle e per fortuna arriva Silvia che, pur saltandomi attorno e facendomi le feste, ha la prontezza di condurmi all’ombra e dove spira una circa-fresca brezza - dietro la chiesa, sotto ai cipressi appropriatissimi del cimitero.
*
Al pasta party quasi non tocco il pasticcio; di birra ne bevo un sorso e non me la gusto: ma da bravo sportivo eccetera mi ero privato dell’alcool per tutta la settimana in vista di una prestazione competitiva che pensavo un po’ diversa, e guarda quante stronzate si fanno, ché la vita comunque una sola è.
*
Un’ora dopo, nella baita, rannicchiato sul letto, avrò trentotto di febbre.
Seguimi per altri bollettini medici.
Incudine in breve
Sono Davide Zambon, ghostwriter e scrittore. Incudine è la mia newsletter e queste sono sei notizie e informazioni utili su di me.
Puoi trovare il mio primo libro, Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni (2021, autoprodotto), su Amazon. Trovi altre informazioni su Attraverso qui.
Sto scrivendo il mio secondo libro, il cui titolo di lavoro è MPSP. Ne pubblico regolarmente estratti in questa newsletter. Sto lavorando ad alcuni racconti brevi per mettere le basi - di lore e linguaggio - di una cosa che chissà quando.
In questo momento sono in Carnia, Friuli Venezia Giulia.
Sono il 50% di bagaglioleggero.it, blog di montagna, viaggi e nomadismo digitale in chiave alpina. Ci trovi anche su Instagram e nella newsletter mensile Fuori Traccia.
Per i miei servizi di ghostwriting, copywriting e per tutte le altre richieste, scrivi a davide@davidezambon.it
Questo sono io:
A giovedì prossimo!
Me la sono risa dall'inizio alla fine! Fenomenale!!!