È agosto, la suola degli scarponi si consuma sulla roccia rovente di un sole anormale della Valle d’Aosta, la Natura ci beffa per le raquante [ven.] opportunità in confronto al tempo che ci è dato, la lista delle escursioni che vorremmo fare è un’idra a sette teste: ne cancelliamo una, ne spuntano diverse altre.
Il che, peraltro, è meccanismo insito nell’esperienza di montagna: ogni esperienza accumula chilometraggio, e il chilometraggio macinato porta la confidenza di potersi spingere un po’ più in là, in su, in fondo. Il che, peraltro, è meccanismo insito nella scrittura: ogni volta che scrivi qualcosa che funziona, ti viene la confidenza necessaria per scrivere qualcosa di più denso, articolato o rocambolesco. Il che, peraltro, è il meccanismo della vita stessa, eccetera.
La cosa buona: ho in contratto una guida escursionistica della Valle d’Aosta (prevista per il 2024), e il materiale raccolto è già sufficiente per farne almeno due.
La cosa meno buona (si fa per dire) è che il chilometraggio macinato porta quei collegamenti bislacchi per i quali la mia scrittura è famosa (più o meno).
L’altro giorno, stavamo raccontando delle cose a degli amici: aneddoti di sorprese difficili da occultare quando non solo si convive, ma pure si condivide il luogo di lavoro. Nel contempo, mi torna in mente dal nulla un curiosissimo libretto che mi sono ritrovato anni fa in una collezione piratata di libri e riviste su bodybuilding e powerlifting - ma che con questi ultimi non c’entrava nulla; e intanto ho in lettura “Can’t hurt me”, di David Goggins (libro motivazionale spaccatutto) e BUM: un collegamento mirabolante, assurdo e un po’ cazzone. Ma notevolissimo: e ci vediamo tra una o due settimane qui.
Prometto che ti racconto tutto.
Nel frattempo, c’è un po’ di lavoro da portare avanti (è agosto, ma non tutti i clienti sono in ferie), c’è Bagaglio Leggero da nutrire perché l’estate è la stagione nella quale i blog di montagna pompano, ci sono collaborazioni di scrittura da cercare per l’autunno e c’è - non ultimo - MPSP da continuare a scrivere.
Ah, e ci sono vite da rischiare per l’intrattenimento e l’affabulazione di chi legge.
Quindi niente, torno a camminare a scrivere, e ti lascio la prima scena di MPSP. A giovedì prossimo!
MPSP: la prima scena
È maggio, ma come di solito fa a Padova, è una giornata già fortemente estiva - afosa. Percorro una stretta via del centro storico fino a raggiungere il palazzo storico nel quale ho appuntamento: riferimento il bar di fronte, elemento di riconoscimento il portone, i cui rattoppi tradiscono il cantiere che si sta svolgendo all’interno.
Sono il bambino al primo giorno delle elementari, indosso vestiti da lavoro, scarpe antinfortunistiche, uno zaino pieno degli strumenti del disegnatore-da-cantiere-archeologico: un misto tra la cartotecnica e la ferramenta, ci sono matite a punta dura, la famigerata tavoletta con le relative pinze per fissarci i fogli a3 di carta millimetrata, quello che diventerà l’inseparabile quadernone degli appunti, il metro a stecche destinato ad altrettanta inseparabilità, il filo a piombo, puntine, chiodi, cose così.
Il palazzo è già un guscio vuoto, il cortile interno è un vuoto dentro ad un vuoto, e nel mezzo c’è un terzo vuoto, dato dalla trincea di scavo profonda quattro metri e lunga una ventina. Attorno c’è il corredo standard dei cantieri archeologici urbani commerciali, del quale ho solo una blanda conoscenza: escavatori di piccola taglia, badili, carriole, secchi, sacchetti pieni di cocci trasudanti umidità, un tavolo da giardino di plastica con sedie e ombrellone.
Le mie esperienze di disegnatore-da-cantiere-archeologico sono, ad oggi, limitate al contesto rassicurante e rallentato della ricerca scientifica.
Questo è il business archeologico.
Mi accolgono il collega che ha fatto da tramite tra me e questa giornata di prova, e l’Ingombrante Datore di Lavoro, dove ingombrante è descrizione fisica, ma prima ancora attitudinale ed emotiva. I due mi portano prima nella stanza adibita a spogliatoio, poi fuori di nuovo, giù per la scala a pioli e dentro la trincea di scavo e verso un angolo dove tra la parete e il terriccio del fondo c’è la sezione che dovrò rilevare. E questa sezione sa benissimo di non appartenere al mondo della ricerca scientifica, perché è tutto tranne che un bel taglio verticale precisino, dritto e pulito d’ogni granello che ci potresti mangiare sopra: qui è una sconnessione di piani e pianetti scombinati da mani nei capelli, con pietre che escono dal profilo e improvvisi cambi di inclinazione. Ed è anche piuttosto lunga.
“Scusami però”, faccio io all’Ingombrante Datore di Lavoro, “non la pulite prima? Come facciamo a rilevarla?”
“Ma che cazzo ne so? Guarda che sei laureato, tu. Inventati qualcosa.”
Bestemmia, e mi lascia lì a inventarmi qualcosa.
Il che, peraltro, è Che mi hai lasciato in un vortice frattale con l’incipit!
Grazie per l’appuntamento del giovedì.