Que tengas una linda noche, chico.
Dispaccio dal Sudamerica, #27. Verso la fine di un viaggio densissimo, di quelli che sono un'altra vita.
Ciao, sono Davide.
Mi trovo in Sudamerica da duecentoventitrè giorni, e questo è il mio primo ricordo di qui.
Trovi tutto quello che devi sapere su di me e su questa newsletter in basso, dopo il pezzo di oggi. E mi fa piacere se ti iscriverai o condividerai la mia newsletter: trovi gli appositi pulsanti strada leggendo. Uno, per dire, è questo:
Grazie per essere qui, e buona lettura.
Que tengas una linda noche, chico.
Sono quasi le nove di sera ed è il buio dell’autunno e a questa quadra al limite di Recoleta, Buenos Aires, mi sono affezionato tantissimo, penso mentre vado in cerca di una verduleria aperta per comprare delle carote.
Affezionato. Alla micro ferramenta fuori dalla quale ci sono alternativamente un tizio che suona la chitarra o uno che si fa i porri. (Fumo porros y bailo solo, stava scritto a pennarello su un muro di pietra pochi passi dalla Casa Rosada: un manifesto chiarissimo.) La palestra degli spartani con un portone sempre aperto, e ogni tanto qualcuno che sguscia fuori con due kettlebell in mano per farsi un po’ di farmer’s walk lungo il marciapiede. La lavanderia dei cinesi, con il cinese che prima di metterti in mano la roba lavata ci spruzza dentro dell’acqua profumata e ti ri-bagna tutto, e tu ti volevi mettere proprio quella maglietta lì dannazione. Il centro culturale che ha come slogan la frase Peronismo por la ciudad, e dentro bambini e genitori che ballano ritmi campesini. Le verdulerie, appunto, e le carote, e siccome oggi entrambi sentiamo i duecentoventi giorni - o meglio, il loro approssimarsi alla fine - compro a Silvia anche dell’insalata, che le piace sempre, e poi al kiosko aperto 25 ore all’angolo prendo due barrettine di cioccolato con gli arachidi Cofler - questo invece il nostro comfort food totale in Argentina, da mesi, da quando siamo sbarcati dal bus a El Calafate; e dopo che ho pagato con i miei contanti spiegazzati, il ragazzo al di là del banco mi dice
Que tengas una linda noche, chico.
*
Mi piace quando mi chiamano chico; ma così, senza troppe impennate, senza troppe alzate di volume - normalmente, di passaggio. Mi piace moltissimo quando mi chiamano caballero, è il mio preferito, specie pronunciato all’argentina, cabashero, tipo. Mi piace il mi amor delle donne al mercato, di quelle che vendono empanadas fuori dai pueblos lungo le strade infinite e polverose che tagliano l’orizzonte, ma che da un momento all'altro potrebbero essere inghiottite dalle nuvole, dalla roccia impolverata, dalle mesas lunghissime e piatte, da un guanaco dinoccolato, dal becco di una bandurria, dal piumaggio di un pinguino esploratore mentre questo se lo sta lisciando con il becco rima di rituffarsi nelle acque oceaniche; potrebbe essere cancellata da Inti, il dio solare incollerito e digrignante e muscolare dei murales sui desaparecidos, un dio che ni perdona ni olvida: col cazzo che perdona, figuriamoci se dimentica.
*
E così i duecentoventitrè giorni quasi chiudono il giro, e da duecentoventitrè giorni (duecentoventidue in realtà, ma tant’è) ho questo pensiero in testa, questa immagine, e testimone mi è il quadernetto bordeaux nel quale l’ho scritto quasi subito, e il pensiero fa circa così:
che è un onore incrociare il percorso di chiunque, punto. Non importa chi sia, è un onore e basta. In quel momento quella persona è un mondo e incrociarla, ed esserci vicino è di una bellezza e di un significato che probabilmente è impossibile da spiegare; e quel momento - che durerà pochi minuti e poi finirà, e probabilmente i vostri vettori non si incontreranno mai più - beh: quel momento, quell’incontro è prezioso, in assoluto.
Eravamo appena arrivati a Santiago del Cile, avevamo raggiunto il nostro grattacielo oscillante di terremoto, eravamo stravolti. Dall’Uber avevo visto dei minimarket prossimi, così sono sceso a comprare qualcosa da mangiare: del pane da toast, due paltite - due avocado, anche se ancora non sapevo della tendenza cilena al diminutivo - uova (huevitos). Poi stavo rincasando con le mie cose sottobraccio ma, proprio di fronte al portone di casa, era nel frattempo comparso un carretto piccolissimo e autosufficiente, di quelle cose che se ci metti a ragionarci trenta designer mica te le progettano così: c’era il braciere a gas, la bombola, una scatola di polistirolo, la rastrelliera di salse da spremersi da soli, ogni cosa necessaria all’attività, le ruote, una ramazza per tenere pulito a fine serata, la sorella per dare una mano con i compiti collaterali incastrata al suo posto, precisa; un ragazzo assemblava completos, hot dog, con movimenti altamente coreografati, ampi, grandi svolazzi di salse - tante salse - e poi una pioggia finale di briciole irregolari che, abbiamo scoperto solo poi, erano patatine del sacchetto del tipo grigliate/rustiche, schiacciate con sapienza dalla sorella e usate come ciliegina finale della guarnizione; c’era la coda, le persone scambiavano una ciarla aspettando il proprio turno, la sera dell’estate australe scendeva piano nel canyon tra i grattacieli della metropoli.
[Curiosamente, un tizio piazzato di fronte al carretto, a ogni boccone, prendeva una bottiglia di salsa e ci dava una spremuta sul completo; qualcosa però doveva essergli sfuggito, del meccanismo delle salse, e la spruzzata finiva sempre sullo stesso punto, cioè su quello che sarebbe stato l’ultimo boccone.
Ultimo boccone che alla fine, per le salse, sarà pesato trecento grammi.]
Ho comprato due completos pieni di tutto e sono salito in casa. Con pancito paltita y huevitos ci avrei preparato la colazione l’indomani.
*
E quel momento, quel momento: quel momento durato pochi minuti, durante il quale quel ragazzo ha sfoggiato tutta la sua arte, ha svolto un pezzetto della sua vita con perfezione e amore, con i tizi del delivery che si fermavano a fianco, mangiavano il loro completo senza neanche scendere dalla bici o dalla moto, i sorrisi, i profumi, le patatine sbriciolate nel sacchetto, la scatola di polistirolo che si apriva e chiudeva senza pausa, la coda di clienti che si rinnovava ogni minuto.
Quel momento in cui tutto era lì, in nessun altro luogo se non lì; e anche se ovviamente potevo immaginare che ad un certo punto avrei avuto in tasca un biglietto di ritorno, in quel momento non avrei saputo dire se prima o poi l’avrei avuto davvero, in tasca - come ce l’ho ora.
Quel momento è il primo ricordo che ho di questi duecentoventitrè giorni, ed è stato un onore incrociare il tuo carretto e mangiare uno dei tuoi completos, ragazzo.
Que tengas siempre una linda noche, chico. Gracias por todo.
Incudine in breve
Sono Davide Zambon, ghostwriter e scrittore. Incudine è la mia newsletter e queste sono sei notizie e informazioni utili su di me.
Puoi trovare il mio primo libro, Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni (2021, autoprodotto), su Amazon. Trovi altre informazioni su Attraverso qui.
Sto scrivendo il mio secondo libro, il cui titolo di lavoro è MPSP. Ne pubblico regolarmente estratti in questa newsletter. Sì, sto scrivendo anche 18 escursioni fighissime in Valle d’Aosta (titolo di lavoro).
In questo momento mi trovo in Sudamerica (ora in Argentina, a Buenos Aires), a tempo quasi indefinito.
Sono il 50% di bagaglioleggero.it, blog di montagna, viaggi e nomadismo digitale in chiave alpina. Ci trovi anche su Instagram e nella newsletter mensile Fuori Traccia.
Per i miei servizi di ghostwriting, copywriting e per tutte le altre richieste, scrivi a davide@davidezambon.it
Questo sono io:
A giovedì prossimo!
Davide, mi hai commosso
Tanta vita in quello che dici, vita vissuta intensamente
Simonetta
Da esploratrice che ha vissuto in 6 paesi e 3 continenti, ho amato ogni parola di questo pezzo. Mi hai fatto voglia di partire con un solo biglietto. Ah, se potessi!!!!!! :)