La possibilità che le cose vengano complicate inutilmente
Dispaccio dal Sudamerica, #13. Dedicato a quelli che bevono caffè, a quelli che bevono mate, a quelli che stanno tentando di capire cosa preferiscono (io).
Ciao, sono Davide.
Scrivo da Villa la Angostura (provincia di Neuquén, Argentina), da dentro una capanna nel bosco (è più un giardino, se vuoi, ma gli alberi sono così alti, avvolgenti e vivi da renderlo bosco; e comunque, il sole quasi non passa mai le chiome).
Questa newsletter ha un che d’incompleto; ma se bevi caffè, implica una domanda o una riflessione, e mi farà piacere sapere cosa ne pensi.
Trovi tutto quello che devi sapere su di me e su questa newsletter in basso, dopo il pezzo di oggi. E mi fa piacere se ti iscriverai o condividerai la mia newsletter: trovi gli appositi pulsanti strada leggendo. Uno, per dire, è questo:
Grazie per essere qui, e buona lettura.
La possibilità che le cose vengano complicate inutilmente
Stiamo guardando il pieghevole che ci hanno dato all’ufficio turistico di Villa La Angostura - quello con i senderi escursionistici. Sulla prima facciata ci sono quattro giovani, di spalle, in piedi sulla sommità di un monte, sullo sfondo e in basso laghi enormi che sembrano fiordi.
È una foto sbagliata, dico a Silvia. Nessuno di loro ha il mate in mano.
Non è una scoperta: ogni cittadino argentino fa le sue cose quotidiane intralciandosi da solo perché deve tenere in mano la copita del mate e un thermos spesso oversize (vanno molto i classici Stanley, quelli con la maniglia sul fianco). Non è nemmeno una scoperta il fatto che io, vittima della tendenza a diventare dipendente dalle cose amare, mi sia convertito, almeno temporaneamente, da bevitore incallito di caffè, a centellinatore di mate. Tre settimane in Sudamerica, e il fango di una montagna alla fine del mondo aveva restituito ai miei piedi una bombilla, la fondamentale cannuccia per bere il mate [la uso ancora; vedi nota 1]. Da un primo pacchetto da 250 grammi, ora compro regolarmente quelli da un chilo, provando di volta in volta una marca diversa. Al mercatino degli hippie di El Bolson, la settimana scorsa, ho comprato la mia prima copita di calabaza, cioè ricavata da una zucchetta; è rosso-scura e intagliata a semplici pattern.
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Camminavamo nel bosco, ieri mattina. La luce del mezzogiorno spettacolare, le creste ancora lontane, un improvviso suono legnoso e insistente: poco più avanti, sui tronchi degli alberi, i carpinteri, i picchi di Magellano, Campephilus magellanicus. Sono animali bellissimi, grossi, si muovono a scatti su e giù per i tronchi, fanno versi buffi e picchiano - cristo se picchiano. Ogni quattro, cinque picchiate - il movimento è in tutto e per tutto quello della testata - si fermano, tirano indietro la testa perfettamente rossa - il resto del corpo nero, una striscia bianca sul dorso - piegano il collo in modo strano e artigianale (nel senso dell’artigiano che sul lavoro che sta facendo prende una misura a occhio) e riattaccano a picchiare.
Posso solo immaginare il rintronamento, il mal di testa conseguente alle picchiate.
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Nasco bevitore di caffè, io, all’università. Non fumando, avevo bisogno d’un altro modo per gestire le pause sigaretta: sono uno di quelli del bicchiere in mano per superare l’ansia sociale; poi i gesti ti si calcificano nelle ossa ed è fatta - certe dipendenze nascono anche così. E in ogni caso, alle pause sigaretta della mattina non avrei potuto usare alcolici.
È stato amore, con il caffè: lo è ancora.
In ordine sparso:
il tentativo di ottenere maggiore eccitazione combinando il consumo di caffè con quello di polvere di guaranà;
nei periodi oscuri, la china senza fondo dei caffè di marca peggiore;
i caffè durante i turni di notte allo smistamento delle poste; sicuramente sul podio degli elementi che in quel periodo hanno compromesso i miei ritmi circadiani e il mio metabolismo;
io che ignoro bellamente il consiglio - scientifico, ma anche di buonsenso - di non bere caffè dopo le cinque di pomeriggio, PER DECENNI;
ancora io, che non subisco mal di testa neanche il giorno dopo le sbronze più catastrofiche, che soffro di mal di testa quando Andrew Huberman mi spiega come ottenere il massimo dalla caffeina (ai fini prestazionali) e me ne privo per alcuni giorni.
Infine, per me è la moka. Nel senso che non disprezzo l’americano (anzi), che in tenda o all’estero mi accontento del solubile, ma che il caffè di casa è quello della moka. (Le cialde sono una bestemmia).
Nella pagina della Wikipedia dedicata alla moka, il paragrafo di descrizione inizia con le parole “si tratta di un semplice oggetto”; e qui veniamo al punto.
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Il fatto è che il mate è uno e uno soltanto: due ingredienti - le foglie seccate e triturate, l’acqua a 70-80 gradi - due oggetti - la copita, la bombilla - e una procedura, punto.
Puoi essere sulla porta di casa, sul limitare di una falesia vulcanica e struggente a picco sui laghi, alla fermata del bus lungo una strada non asfaltata e infernalmente pulverolenta e il bus è in ritardo di quaranta minuti, non importa: ti fai un mate, il mate detta il tempo, il tempo passa, fine.
Sei da solo, ti fai un mate. Sei in compagnia, comparti un mate: lo condividi con i presenti.
In virtù del mate ogni cosa rallenta, e per una qualche legge di diffusione questo rallentamento si fa carattere umano. Si fa nazione.
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Mi ricorda quando in Burkina chiedevo alle persone qualcosa di prospettivo, e loro mi rispondevano ça va aller, andrà. Mi ricorda il caffè lento, lentissimo del Nordafrica - filtrato anch’esso verso sud, oltre il Sahara - rituale e ospitalità; mi ricorda Corrado Noventa che beve schifato il caffè pieno di fondi nell’isoletta greca di Mediterraneo (il film).
In fondo, anche la moka ha virtù di questo tipo.
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Finché non arriva - non lo so nemmeno io, cosa. Arriva comunque che scopro che esiste un filone di appassionati del caffè che il caffè se lo fanno con macchine lucide e costosissime e di iper design, con tubi e tubicini stile alambicco con idee steampunk, manopole, misuratori di temperatura e pressione ultra precisi, una cura per il dettaglio maniacale. Ho visto contenuti Instagram del tipo “quando inizi [ad appassionarti al caffè] sei così”, e c’è una macchina comunque lucida e costosissima e alcuni gesti trattenuti, “ma quando ci prendi gusto, diventi così”, e arriva un’arsenale di accessori e pezzette e spugnette e sbuffi di vapore e non ricordo cos’altro; ma soprattutto, il numero di operazioni per arrivare al caffè era almeno doppio.
E non lo so; vorrei elaborare di più questa riflessione embrionale - e forse lo farò, prima o poi; ma solo mi chiedo se la complicazione degli oggetti non finisca per ingombrarci, per intortarci con rituali non essenziali, per privarci della semplicità quasi zen di alcuni gesti. Mentre la moka è su, puoi continuare a parlare con i tuoi ospiti, tirare fuori gli amari, mettere un disco; mentre scuoti la copita del mate per far depositare la polvere, qualcuno dei presenti si farà avanti con il thermos; mentre armeggi con macchinari spaziali, non so.
Mi verso un ultimo goccio di acqua dal bollitore, le foglie sminuzzate hanno quasi esaurito il loro gusto, ripenso al carpintero con la testa rossa di mal di testa da capocciate, ripenso ai caffè che mi farò con la moka da quattro una volta tornato in Italia ma non ho fretta: una pippatina dalla bombilla, e va bene così: ça va aller.
Note.
1 - La storia della bombilla del Monte Tarn è qui:
Gli esploratori
Si diceva quindi che gli abitanti della capitale sono convinti che al sud i pinguini camminino comunemente per le strade degli abitati. No lo se, ma so che stavamo guidando verso nord lungo la strada 9 - un nastro prima sterrato e talmente vicino all’oceano da farti pregare che non arrivi l’alta marea mentre sei parcheggiato al di là; poi sterrato tra p…
Incudine in breve
Sono Davide Zambon, ghostwriter e scrittore. Incudine è la mia newsletter e queste sono sei notizie e informazioni utili su di me.
Puoi trovare il mio primo libro, Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni (2021, autoprodotto), su Amazon. Trovi altre informazioni su Attraverso qui.
Sto scrivendo il mio secondo libro, il cui titolo di lavoro è MPSP. Ne pubblico regolarmente estratti in questa newsletter. Sì, sto scrivendo anche 18 escursioni fighissime in Valle d’Aosta (titolo di lavoro).
In questo momento mi trovo in Sudamerica (ora in Argentina, a Bariloche), a tempo quasi indefinito.
Sono il 50% di bagaglioleggero.it, blog di montagna, viaggi e nomadismo digitale in chiave alpina. Ci trovi anche su Instagram e nella newsletter mensile Fuori Traccia.
Per i miei servizi di ghostwriting, copywriting e per tutte le richieste, scrivi a davide@davidezambon.it
Questo sono io:
A giovedì prossimo!