Questa è Patagonia
Dispaccio dal Sudamerica, #6. Di cavalli che impattano, bevande impossibili, il nulla.
È un’esplosione di terra e merda di cavallo quando il fianco sinistro dell’animale impatta contro la staccionata di legno e fil di ferro a cinquanta centimetri da noi, vedo nettissime le vene in rilievo sul pelo baio della coscia posteriore sinistra, il pulsare del torace elettrizzato dall’adrenalina e dalla rabbia e la coda nera che è uno svolazzo in ritardo e la punta dello stivale del jinete incastrata nel foro a forma di empanada della staffa - uno strano disco di legno fissato ad una sella minimale per mezzo di una fettuccia di cuoio; e mentre il rasgueado del chitarrista sul palco grattugia un ritmo infernale la staccionata accusa il colpo e si gonfia verso l’esterno del recinto e i cinquanta centimetri diventano quarantacinque ma sembrano adesso dieci (al massimo), il cavallo rincula verso l’interno e ci sono i tonfi sordi degli zoccoli e il rasgueado imperterrito e da sotto l’ultimo giro di fil di ferro schizza fuori un barboncino bianco che ha mancato per un attimo la possibilità di diventare un adesivo della Whiskas; e i nostri vicini sulle loro sediolette pieghevoli con il porta-copa-del-mate sul bracciolo - cinquanta centimetri anche loro - non hanno fatto una piega e se la stanno ridendo perché io mi sono paralizzato e a Silvia il cuore ha raddoppiato i battiti; il barboncino quasi decalcomaniaco è tornato da loro e intanto l’azione è finita con la campanella del giudice - quindici secondi - ed è il momento di far partire una compa improvisada!, canta il payador normalizzando il ritmo e riportandolo sugli accordi come probabilmente sta facendo il cuore del cavallo che in fondo al recinto se la sta trotterellando mentre altri due gauchos lo recuperano a cavallo, e tengo un verso en el corazon dice l’improvvisazione, e l’adrenalina e la rabbia tornano a farsi malinconia y soledad spazzate dal vento.
(uff.)
Di queste jineteadas - il rodeo gaucho tradizionale - se ne fanno al massimo quattro all’anno, ed è una fortuna aver incrociato nelle nostre camminate per la città il manifesto che, al di là del cavallo imbizzarrito con il jinete e le relative vertebre ultracompresse in pericoloso equilibrio sulla sella, sottolineava la presenza di tal animador e talaltro payador, i quali sarebbero stati responsabili dal loro palco coperto e rivestito di assi bianche di una telecronaca e una colonna sonora continue e monocordi; tutto attorno al recinto, gli spettatori hanno parcheggiato di culo i fuoristrada, le famiglie sono sedute nei cassoni su frighetti portatili o sedie pieghevoli, hanno copas per il mate e relativi thermos, casse di birra, baschi rossi o neri in testa, cani liberi e figli ugualmente. Un bimbetto gioca tutto il tempo tra noi e la staccionata tenendo in una mano un legno di faggio sbiancato dal sole e dal vento patagonici e nell’altra una palla di sterco secco di cavallo che credo ad un certo abbia anche assaggiato, ed io - con l’intestino e gli occhi pesti dopo tre giorni di trekking in tenda - non posso che invidiare la formazione immunitaria di questi niños campestri.
Di niño poco dopo schivo la versione per bambini del terremoto, il drink con il quale azzardo uno scherzo al mio già traballante status intestinale: terremoto niño infatti non ne qualifica la dimensione bensì gli ingredienti, per cui l’elemento principale del drink sarebbe stato la Fanta. Riesco a cambiare ordine in tempo, e il mio terremoto adulto è un bicchiere da una pinta pieno per quattro quinti di vino bianco versato dalla tanica e corretto con grenadine e sigillato con un’abbondante palettata di gelato all’ananas; il modo in cui il retrogusto di vinaccio scalpita per farsi sentire dal fondo dell’assoluto zuccherino della bevanda è roba per gastronauti d’esperienza.
Il vino riesce a farsi sentire, gli occhi mi si pestano ancora di più, si alza il solito vento e c’è un altro giro di rodeo. Il cavallo è costretto contro il grosso palo bianco rosso e blu dal concorrente di turno, dagli assistenti, da due altri uomini a cavallo. Volano pacche, il rischio di beccarsi un calcio equino è tangibile. Ci sono stivali di pelle e pelo, cinghie, corregge di cuoio, velluto e jeans e lana, baschi. Il gaucho trattiene il cavallo nei secondi di compressione che precedono il via, e quando questo arriva c’è un’intensità assoluta di turbine e scalpitare e sgroppamenti e colpi secchi e scavallate: tutto sta nel restare in sella per quindici secondi per poi essere recuperati al volo dai due tizi a cavallo. Molti gaucho non durano che pochi secondi in sella.
Ci sono pacche sulle spalle, abbracci, sorsate di mate e sigarette fumate nell’attesa, applausi, la cronaca e la colonna sonora monocordi. Dopo ogni prova, il torace dei cavalli pulsa per lo sforzo concentrato.
Parte un’altra cumpa improvisada, i versi sono rassegnati e c’è una chiusa con un’impennata di tono e intensità e poi resta solo la chitarra mentre l’animador sta raccontando una cosa tipo che il prossimo cavallo è una bestia potente e la conosciamo bene (sic.), una bestia salvaje, ma questa forse è la volta buona, perché al palo si sta preparando Taldeitali Muñoz, che viene direttamente dal cuore della cuenca carbonifera ed è jinete di grandisima esperienzia.
Alle parole cuore della cuenca carbonifera l’epica chiude il cerchio ed è totale. Taldeitali Muñoz dura cinque, sei secondi.
Ma dicevamo: per tutto il tempo della jineteadas il cielo è uniforme e così ampio da non aver risposte; le poche case dell’estancia sono lontane e sembrano minuscole e ogni cosa è recinto per cavalli oppure cerro sullo sfondo, una muraglia sedimentaria mezzo inclinata contro la quale rimbalza la melodia della chitarra classica del payador, così densamente malinconica e uniforme da essere tutt’uno con il cielo di cui sopra, e come un brivido realizzo.
La sera prima l’autobus attraversava il nulla patagonico, qualche goccia di pioggia, il cielo plumbeo, la luce incupita. Ero distrutto, cotto dopo trekking, zaino, traghetti e autostop e altri autobus ma non volevo addormentarmi: seguivo negli auricolari la musica che la stanchezza scomponeva in parti isolate, gli strumenti e i suoni che più si allontanavano dal centro del mixaggio rischiavano di perdersi, di rimanere indietro ad ogni sobbalzo del veicolo.
Lì ho visto quella malinconia uniforme che avrei ascoltato il giorno dopo. I laghi estesissimi dalle acque increspate. L’infinito di ciuffi d’erba, arbusti bassi, spine, bacche. Le cuesta e i lunghi dossi allungati che a guardarne il profilo sommitale sembrano teste, i volti immobili orizzontali fissi al cielo, agli astri, agli spiriti o a chissà cosa. Ed anche i guanachi, di solito così dinoccolati nel loro passo, con quelle improvvise corse all’impazzata senza senso per i piani privi di curve di livello - anche i guanachi alla base del monte, settanta, ottanta, cento esemplari, sembrano invece spiriti malevoli in attesa, sguardi carichi di disapprovazione puntati sul nostro bus lento a fendere un niente non umano.
Ho chiuso gli occhi e mi sono fuso nella musica.
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Incudine in breve
Sono Davide Zambon, ghostwriter e scrittore. Incudine è la mia newsletter e queste sono sei notizie e informazioni utili su di me.
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In questo momento sto scrivendo il mio secondo libro, il cui titolo di lavoro è MPSP. Ne pubblico regolarmente estratti in questa newsletter.
In questo momento mi trovo in Sudamerica (ora in Cile), a tempo quasi indefinito.
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A giovedì prossimo!