Ciao, sono Davide.
E questa introduzione è stata scritta due settimane fa:
[…] e sono sei mesi che non scrivo qui, ma sono anche due mesi da quando alla prima riga della bozza di questo post ho scritto che sono sei mesi che non scrivo qui, e quindi fanno otto, forse anche qualcosa in più, e non serve aggiungere altro.
Trovi tutto quello che devi sapere su di me e su questa newsletter in basso, dopo il pezzo di oggi. E mi fa piacere se ti iscriverai o condividerai Incudine: trovi gli appositi pulsanti strada leggendo. Uno, per dire, è questo:
Grazie per essere qui, e buona lettura.
Ma voi, vi divertite ancora quando scrivete?
1.
Nel museo delle Fine Arts di Bishkek (Kirghizistan), c'è un quadro gigante e pregevolissimo, diciamo proprio sul punto di passaggio tra le sale della pittura tradizionale e quelle delle cose moderne; nel quadro ci sono alcuni cavalieri che stanno cacciando un lupo - l’hanno ormai accerchiato - e la dinamica, la composizione della tela sono movimentate e notevoli perché il lupo è nell'angolo in basso a destra, sovrastato alle spalle da un cavaliere e un cavallo enormi (per prospettiva), dietro ai quali c’è la schiera degli altri cavalli e cavalieri, e sembra che il lupo sia stato gradualmente spinto in questa posizione dalle spire concentriche di un inferno di tizi dalla pelle scura e dai tratti arcaicamente asiatici, gli occhi tagliati orizzontali, cappelli di pelo, e sia stato immortalato nel preciso fotogramma che precede la cattura (o peggio).
È proprio quello che sta succedendo a noi da alcune decine di minuti: nonostante manchi ancora un quarto d'ora alla chiusura del museo, le babushke che fino a poco fa facevano la guardia alle sale cazzeggiando con i telefoni, spostando impercettibilmente, ruotando impercettibilmente le sedie per seguirci con lo sguardo di sala in sala ma sempre a distanza, ora - meno dieci alle sei - ci seguono platealmente; stanno convergendo intorno a noi, comparendo da ali laterali, da porte, corridoi, passaggi, drappi; lasciata la sediolina nei pressi dell’ultimo stipite guardato, ciascuna di loro spegne le luci della stanza dalla quale proviene, in modo da inangolarci verso le scale che portano all'uscita; e ora - meno otto - siamo e sono tutte nell’ultima sala, loro che fingono di fare le cose dell'orario di chiusura - la posizione di un interruttore da verificare oppure un dito da passare per sentire la polvere eventuale - noi che alla fine ci tocca scivolare verso l'uscita, dove troviamo la guardia che - meno cinque - ha già la mano sul pomello della porta principale.
Che comunque aveva già chiuso a chiave.
Perché sono sei più due mesi
Certo c’è la vita quotidiana, quella settimanale, quella dei mesi. Tornati dalla Patagonia abbiamo fatto gli zaini e siamo stati impegnati in un progetto di comunicazione territoriale che ci ha spremuto come limoni e che, in una delicata inversione al profumo di zagara, mi ha regalato non un lime ma il lyme - leggilo qui!, come si dice in comunicazione negli anni Venti del Duemila; poi ci siamo sposati e abbiamo fatto festa; siamo volati in Kirghizistan affinché io potessi assaggiare il latte di giumenta fermentato, seguire le ampie impronte di Manas e le falci-e-martello sparse di qua e di là, dormire nelle yurte a tremila metri di quota, scrivere l’introduzione di cui sopra; poi ancora una tappa di Alto Adige, le feste, l’Abruzzo - ora. Il lavoro, Bagaglio Leggero sempre più presente e pressante e funzionante e generante contatti e progetti, e poi i progetti personali, e poi la vita di coppia e la vita individuale e la vita sociale e le montagne e le montagne e le montagne.
Tutto pieno, ma non è questo.
C’è un po’ di ansia da prestazione, anche, se vuoi; ma anche questa è normale, connaturata in parte allo scrivere fuori dalle confortevoli paginette del quadernetto privato.
La prima cosa
La prima cosa è venuta fuori, fatalità, oggi. Guidavo, nella nostra traslazione dall’Abruzzo, dove abbiamo vissuto due mesi e mezzo, alle Prealpi Venete, dove vivremo per altri due mesi; nevischiava, tutto era quieto nelle morbide curve teramane, e Silvia si stava aggiornando su newsletter varie, e mi ha letto una cosa che riassumo (la linko in fondo, per non distrarre dal flusso): ci sono i creativi, quelli a cui conta soltanto di fare la loro cosa - eccomi qua, ah! - e ci sono i creator, quelli che fanno la loro cosa, ma poi anche la veicolano, la pubblicizzano, la monetizzano, la loro cosa, arrivando infine a vendere la loro persona, più che (solo) la loro cosa.
E comunque a fare i schei.
Perché a riuscire, nella creator’s economy, sono ovviamente i creator, perché il mondo, gli algoritmi, il pubblico, tutto è fatto così, giardino di delizie per loro da fruir’. E quindi a noi creativi (artisti, se vuoi; ma solo nel senso umile di coloro che tentano di fare la loro arte) non resta che continuare a rimanere qui dannati tra gl’inferi dei bar, senza un scheo in tasca, a far fatica e bestemmiare alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, e che palle però.
Continuare a farlo, a rimanere qui dannati, ovviamente: perché il destino di coloro che fan’arte, alla fine, è sempre stato quello di miseria e povertà, e battere la testa come quei caproni petulchi che siamo, contro muri che non rispondono (ma intanto fanno fatturare ai creator).
(Che poi quando vendi la tua immagine prima della tua cosa, in quanto creator, non sei libero, per nulla e su molteplici piani sovrapposti di non-libertà; mentre l’artista dovrebbe essere il granello di sabbia che fa quel cazzo che vuole, e nel frattempo riga e inceppa gli ingranaggi del sistema eccetera, ma tant’è, è un altro discorso per altre volte - avendone voglia.)
In ogni caso, un po’ non riuscivo a decidermi a scrivere per questa cosa qui.
Interludio
Ora avrei una immagine chiarissima per giustificare quello che ho detto, che è quello che sento: sia il pezzo al paragrafo sopra, che quello al paragrafo sotto - che era il titolo originario di questa newsletter.
È un esempio del mondo reale, le cui occorrenze sto raccogliendo da qualche anno.
Eppure, per la tema di urtare su più piani la sensibilità di qualcuno e qualcuna, mi sono roso per giorni, settimane, mesi, sulla possibilità di scriverla: ho deciso di no, e questa cosa mi sta sul cazzo tantissimo, e ancor più mi rode.
Ma voi, vi divertite ancora quando scrivete?(ripresa)(parziale)
Ma il vero motivo per cui non ho scritto per mesi, ecco, è questo. Sono entrato in questo posto - nel senso di “dove pubblico la mia newsletter”, cioè Substack - e ho avuto la sensazione che qui non si diverte nessuno. E poi questa sensazione, mentre me la sentivo addosso, ho visto che mi era provocata anche in altri posti deputati allo scrivere, al raccontare.
Non si diverte più nessuno. E nel non divertirsi, è un po’ due palle anche per chi legge, per chi fruisce.
Nessuno che fa piroette per il gusto di farle, nessuno che sporca il foglio perché gli va, nessuno che prova cose che non sa bene se riusciranno, e probabilmente non riusciranno, ma insomma chi se ne frega, che male c’è? Nessuno che si fa prendere da una necessità di buttare fuori qualcosa informe, bruttino ma divertente, sgraziato ma irresistibile.
No: serve spiegare. È il mondo degli spiegoni - degli spiegoni che mettono in secondo piano la meraviglia, l’aneddoto, la storia. Tutto deve essere utile, efficientista, e tutto deve essere di valore (dannazione a chi ha coniato questo concetto).
E andrebbe anche bene - lo so che il fine, l’utilità di un pezzo è anche, metti, l’intrattenere, od altro; e quindi utile vuol dire un sacco di cose. Eppure, qualunque sia il fine ultimo di un pezzo… sembra sempre che ci sia quest’ansia di dover spiegare, informare, decalogare, scorporare. E non mi lasci niente - a me lettore - perché, beh: perché lo spiegone.
È tutto un pianificare, un programmare; è tutto un redigere e pubblicare e passare ad altro.
È tutto un sacco noioso.
(Sì ok, era uno sfogo. Prendilo come viene, prova a capire perché l’ho scritto, e dimmi cosa ne pensi che mi fa piacere.)
(E se scrivi, e soprattutto se scrivi pubblicamente, ti chiedo: ti diverti a farlo? Hai quel brivido di aver incastrato quella parola grossa in uno spazio giusto un pelo troppo piccolo, e i suoi bordi sono strizzati e non a-filo, anzi, sporgono pure un po’ dal posto che gli hai trovato e qualcuno di inavvertente rischia anche di inciamparci, sullo spessorino che si è formato… ma quanto bene ci sta proprio lì, ahn?)
Chiusura
Interrompo abrupto, non rileggo, non chiudo il pensiero perché altrimenti non si pubblica mai niente.
E ci vediamo tra una o due settimane qui, così ch’io possa metterti a parte della mia pregevolissima riflessione sui parallelismi tra il romitaggio dei santi medievali abruzzesi e la creator’s economy.
E sì, come avrai capito, in me e Silvia spazzati dalle babushke verso gli angoli del Fine Arts di Bishkek non c’è nessuna metafora, nessuna utilità, niente. Così come nella foto di me con il pastore abruzzese.
🤷
(Il pezzo che mi ha scosso e fatto riprendere questo numero di Incudine è di Andrea Girolami di Scrolling Infinito, ed è qui.)
Incudine in breve
Sono Davide Zambon, ghostwriter e scrittore. Incudine è la mia newsletter e queste sono sei notizie e informazioni utili su di me.
Puoi trovare il mio primo libro, Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni (2021, autoprodotto), su Amazon. Trovi altre informazioni su Attraverso qui.
Sto scrivendo il mio secondo libro, il cui titolo di lavoro è MPSP. Ne pubblico regolarmente estratti in questa newsletter. Sto lavorando ad alcuni articoli.
In questo momento sono in una undisclosed location.
Sono il 50% di bagaglioleggero.it, blog di montagna, viaggi e nomadismo digitale in chiave alpina. Ci trovi anche su Instagram e nella newsletter mensile Fuori Traccia.
Per i miei servizi di ghostwriting, copywriting e per tutte le altre richieste, scrivi a davide@davidezambon.it
Questo sono io:
A giovedì prossimo!
Ammetto che non subisco troppo questo problema, in quanto non sono un creator e sono anche poco creativo dal punto di vista della scrittura. Eppure anche quel poco mi richede sforzo. La cadenza periodica non mi è facile e si scontra con i risultati. Però, anche se non sono soddisfatto di quel che scrivo lo pubblico lo stesso perchè anche l'esercizio in sè ha il suo senso. E l'esercizio prima o poi mi aiuterà a scrivere meglio o a capire come voglio che siano i miei pezzi. Ma nel frattempo a quei pochi che mi leggono tocca leggersi post scialbotti.
Per quanto riguarda la minor sperimentazione, c'hai ragione, temo sia un male di questi anni. Sarà anche un luogo comune, ma è vero che c'è una forte spinta affinchè tutto sia semplice, lineare, comprensibile. Tutto dev'essere pronto, richiedere poca fatica. C'è un intero mercato che vive sulla nostra pigrizia e quando la pigrizia diventa abitudine poi trabocca in tutti gli altri aspetti della vita, compresa la scrittura. Ok, è il regno delle banalità, ma ci siamo tutti dentro.
Che bello però quanto ti capitano sotto mano e in maniera del tutto inaspettata un libro, un film, una canzone fuori dagli schemi! e capisci che le cose si possono ancora fare in maniera diversa.
(scrivere questo commento è stata una faticaccia, ora vado a farmi un pisolo)