Una delle più belle sensazioni possibili
Dispaccio dal Sudamerica, #7. La natura e il non-cartografato che volevo.
Perché alcuni dicono / il fatto è questo: / puoi essere tutto e ovunque / ma ti starai sempre perdendo qualcosa.
Perché alcuni dicono / “guarda ma non toccare” / e allora fa in modo di averlo visto / e di averlo visto abbastanza. [1]
La sensazione non è odorosa di mare, nonostante i fiordi siano a poche centinaia di metri da noi; odorosa di mare e alghe in decomposizione, di guano e di sale lo era solo sulla spiaggia, qualche ora fa: poi ci siamo addentrati tra gli alberi, ad ogni passo facendo scappare conigli, tantissimi conigli.
Ma durante l’andata la sensazione non era ancora formata: stava covando, accumulando percezioni e dati ambientali. L’ho sentita e realizzata solo al ritorno, mentre camminavo seguendo una direttiva apparentemente plausibile - raggiungere il colletto dove passa il sentiero, evitare la palude nascosta tra gli alberi, queste le istruzioni. Il fatto è che durante l’andata sentivo soprattutto l’ansia di essere in casa d’altri - e non metaforicamente: per arrivare alla base del cerro ci hanno consigliato di evitare l’estancia, per cui abbiamo dovuto scavalcare recinzioni su recinzioni, infilandoci tra i tiri di fil di ferro come avevamo visto fare a uno dei jinete del rodeo di domenica - come altrimenti avremmo potuto fare? E poi, mentre attraversavamo boschetti, radure e paludi e passavamo di fianco ad un laghetto nascosto tra la vegetazione e solcato dalle papere, i gabbiani e chissà che altri uccelli roteanti sulle nostre teste lanciavano incessanti versi striduli d’allarme; e in più i boschetti e le radure erano popolati dai baguales, cavalli e mucche i cui avi avevano deciso d’involarsi almeno un secolo prima, e le cui generazioni precedenti s’erano gradualmente inselvatichite: e se i bagualcavalli si lasciavano avvicinare e carezzare, i muggiti delle bagualmucche e i loro trotti intimiditi dalla nostra presenza risuonavano orribilmente tra gli alberi. E sotto sotto avevo anche un poco di timore per le due bici a noleggio incatenate all’esterno del primo recinto che abbiamo scavalcato, a due passi dal cartello che diceva Proprietà privata, se volete entrare procuratevi il permesso alla caffetteria del parco.
Caffetteria del parco, tzé - su questa peninsula non c’è nessuno, è evidente: il villaggetto, l’hotel di design e il grande monumento ai navigatori che esplorarono la zona per poi chiamarla Bahìa de Ultima Esperanza, giusto per non farsi e farci mancare nulla - ogni cosa è silente, e sembra abbandonata da anni.
Schivata l’estancia c’è una rampa quasi verticale, un pianoretto, un’altra rampa e sopra un altro pianoretto che prelude ad un’altra rampa: Silvia si ferma qui; spunta un bel sole, le due baie-mezzelune, in basso, sono una meraviglia difficile da descrivere, e il mondo verso nord è un groviglio immoto di bracci di mare tra montagne spigolose ancora innevate. Io faccio l’ultima rampa al piccolo trotto, con solo la felpa legata in vita e i bastoncini in mano, schivo alcune pecore o bagualpecore e raggiungo la sommità della rampa e ci trovo una, due recinzioni da infilarmici oltre, corricchio ancora tra la vegetazione bassissima e gli arbusti spinosi e salgo altri cinquanta metri ed entro attraverso una breccia nell’ennesima recinzione e salgo e basta: il cerro alla mia destra è ancora lungo e alto, di fronte tra le nebbie ci sono altre Ande innevate e lo spirito di Mwono, si sta facendo tardi e tutto il resto.
Scendo, recupero Silvia, iniziamo a riaggomitolare la gita e arriva la sensazione.
La sensazione dell’assenza dell’uomo, la sensazione di un mondo primordiale. La sensazione del non avere un sentiero sotto ai piedi, del seguire il limitare del bosco e i piccoli cambi di pendenza, del provare a intuire le cose - il percorso di un ruscello o il punto in cui il brodo paludoso si fa terreno abbastanza; alcune radure sono punteggiate di ossa perfettamente sbiancate dai condor, dagli insetti e dal sole e dal tempo, i gabbiani continuano a stridere ma meno rispetto a prima, improvvisamente abbiamo i piedi nell’acqua e tocca fare una deviazione; poi seguiamo uno steccato, tagliamo un ampio prato, scopriamo sul terreno un nido: ci sono due uova adagiate e protette da un cono di penne grigie e soffici che piano tremolano al vento, le due uova sono quanto di più prezioso e indifeso e miracoloso esista in natura, e questa è una visione che ci scioglie il cuore.
La sensazione dell’essere gli unici qui; la sensazione del dover ritrovare la strada fino alle bici, e poi del dover pedalare dodici chilometri fino al molo, e poi del dover attendere il barchino che venga a recuperarci; la sensazione della spedizione, dell’esplorazione.
*
Era la natura e il non-cartografato che volevo - pensavo il giorno dopo mezzo appisolato nell’autobus che aveva appena attraversato la frontiera con l’Argentina; e ci chiedevamo intanto come fanno, gli autisti dei bus sudamericani, a non dimenticare passeggeri qua e là, dato che non ci contano quando scendiamo (come abbiamo appena fatto per il controllo dei passaporti) né lo fanno quando risaliamo alla spicciolata; e ci sarà quindi sempre un giapponese abbandonato dal proprio autista al confine tra Cile e Argentina, il cui destino sarà quello di diventare baguale e finire a vagare placido in un angolino di steppa patagonica.
Note.
[1] Polyphia, Look don’t touch
Altro?
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Incudine in breve
Sono Davide Zambon, ghostwriter e scrittore. Incudine è la mia newsletter e queste sono sei notizie e informazioni utili su di me.
Puoi trovare il mio primo libro, Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni (2021, autoprodotto), su Amazon. Trovi altre informazioni su Attraverso qui.
In questo momento sto scrivendo il mio secondo libro, il cui titolo di lavoro è MPSP. Ne pubblico regolarmente estratti in questa newsletter.
In questo momento mi trovo in Sudamerica (ora in Argentina), a tempo quasi indefinito.
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Questo sono io:
A giovedì prossimo!